La mia casa paterna
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martedì 12 ottobre 2010

LA TEORIA DELLE SFERE

Vi voglio raccontare un cosa buffa !
In una discussione fra colleghi una volta elaborai una teoria in cui affermavo che ogni uomo era racchiuso in una sfera e si relazionava con gli altri attraverso il contatto con le altrui sfere.
Vi giuro che non avevo mai letto nulla di simile, ebbene un giorno incuriosito cercai in rete "Teoria delle sfere" e scoprii che esisteva davvero una teoria simile a quella da me enunciata.
es. (http://www.tigulliovino.it/blog/2007/05/la_teoria_delle_sfere.html)

venerdì 8 ottobre 2010

Mi assale un dubbio !

Molti storici locali cercano di trovare un significato al nome "Campodolcino", C'è chi dice che essendo la prima dolce piana dopo l'erta salita da Chiavenna (immaginiamoci quando salivano a piedi e non a bordo di rombanti SUV) il nome più appropriato fosse quello di "Campo Dolce".
Noi oriundi, in dialetto locale, il vero brì, il nome lo pronunciamo in questo modo "Calduscin" , che mi pare nulla abbia di campo dolce. Con un po di fantasia, ma non troppa, si potrebbe suddividere il nome in : Cà 'l dulscin ossia la Ca del Dulscin che tradotto sarebbe "Casa del Dolcino". A voi il compito di trovare chi fosse il Dolcino di cui il nostro paese potrebbe portarne il  il nome ! Ovviamente io un'idea ce l'ho !
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Quando Gherardino fu messo al rogo nel 1300, un suo giovane discepolo, Dolcino, ebbe la forza di diventare capo carismatico del movimento, proseguendone in maniera decisa l'orientamento eversivo.
Da Parma egli passò nel Bolognese e, per sfuggire ai processi e ai roghi, da qui finì nel Trentino, dove, unendosi ad altri gruppi locali di contestazione, predicava contro la corruzione del clero, per un cristianesimo fuori dalle istituzioni e senza obbedienze gerarchiche.
Il vescovo di Trento avviò la repressione, costringendo i dolciniani a fuggire verso la Lombardia e il Piemonte, diventando una sorta di "comune nomade", con tanto di donne e bambini al seguito.
Il movimento si diffuse sulle montagne di Brescia, Bergamo, Como, Milano e soprattutto della Valsesia. Era una compagine di estrazione rurale-artigianale, che aveva trovato molti seguaci negli ambienti delle comunità montane, profondamente avverse agli strapoteri feudali degli aristocratici laici ed ecclesiastici. In tutta la Valsesia medievale si combatteva contro il pagamento delle imposte inique e delle decime, cercando di riscattare le terre in enfiteusi o in usufrutto. Era inoltre una resistenza delle comunità montane contro i modelli culturali sempre più borghesi che s'andavano imponendo nella pianura.
I dolciniani, tra militanti e simpatizzanti, si aggiravano sulle 3.000 unità. Si spostavano continuamente tra Piemonte e Lombardia (1304-1306), respingendo efficacemente i "crociati" cattolici. Per sostenersi scendevano nelle valli derubando quanto potevano nelle chiese e nelle case dei più facoltosi.

martedì 5 ottobre 2010

E VORREI TORNAR BAMBINO

E vorrei tornar Bambino !
Vado sempre ricordando ai miei ragazzi di meditare prima di chiudere una porta. Con questo non intendendo le porte di casa, quelle ogni tanto andrebbero chiuse e loro sempre se ne dimenticano . E allora voi direte: "Di quali porte parli” ? Io immagino un bambino quando   nasce la mamma gli apre la porta della vita e in quel preciso istante di fronte a lui si apre un orizzonte a 360°. Non ha direzioni, non ha limiti apparenti se non il peso della sua nascita, perché diverso è l'ambiente sociale in cui fa il primo vagito e diverse sono le  prerogative e le possibilità, comunque sui diversi spessori della vita  si trova di fronte il labirinto del  futuro. Dapprima un lungo corridoio sul quale si affacciano, sui due lati, delle porte chiuse.  Può scegliere di aprire la prima a destra o a sinistra; la prima scelta indipendente! può passare alla seconda o alla terza e così via, fino a quando non decide di aprirne una. Aperta questa porta gli si chiude alle spalle e non può più tornare indietro; il suo orizzonte si è gia ridotto non sarà più a 360°. Continuando potrà sempre raggiungere un vertice ma non sarà lo stesso vertice che avrebbe raggiunto aprendo un'altra porta! Pensate alle scelte di scuola, all'università, al lavoro, al matrimonio e ad altre scelte altrettanto significative; tutte porte che precludono ampi settori del tuo futuro!
Ecco, vedete, io ho già chiuse quasi tutte le mie porte !
E vorrei tornar bambino !

 Vorrei tornare a quando mia nonna caricandomi sulle sue ricurve spalle  mi portava con se nelle serate di veglia, nelle case dei vicini. Vi era sempre una casa in cui ci si radunava a gruppi di famiglie, non vi so dire se fosse la più spaziosa, la più accogliente o la più riscaldata! In un angolo la pigna di sasso col giropanca di legno. Sulla pigna vi sedeva quasi sempre lui, il capostipite, il patriarca. La moglie sedeva in un angolo con la famiglia cristiana fra le mani. A turno quando si entrava nella stua , senza bussare, ci si avvicinava alla pigna a scaldar le mani, si, perché fuori d'inverno c'era la bisa e faceva molto freddo. Gli ospiti adulti si andavano poi a sedere sull'immancabile cassapanca o "Arca" che aveva la triplice funzione di custodire le scorte di farina, riso o castagne, e quella di comoda panca e di piano d'appoggio per salire sulla licera;  e noi bambini ci si accovacciava sui larghi grembiuli delle mamme e delle nonne. gli altri quelli più grandicelli si accomodavano per terra o sui letti appoggiati alle pareti, a mo' di divani. Nelle case più antiche si dormiva nella stua, qualcuno aveva una altro locale chiamato "cambreta" dove andare a dormire, altri, ed erano i più non avevano questo privilegio! In un angolo di fianco alla finestra, quasi sempre rivolta ad est, c'era maestosa la Licera, alto letto in legno locale, dove su una bisaccia di rumorose  foglie di granoturco dormivano loro, i regiuu. Sul lato opposto vi era poi un altro letto di dimensioni più ridotte in cui a "co'péè" dormivano, a seconda di quanto fosse numerosa la famiglia , i figli più grandi, i maschi a cò le femmine a péé o viceversa. Vi era poi la "cariola" un lettino su misura che di giorno si poteva infilare sotto la licera, per guadagnar spazio, e di notte vi dormivano i più piccoli della ciurma, quelli per intendersi in età prescolare. Appeso alle travi del soffito pendeva spesso un grossa cavagna e dentro Lui "al scua nii", l'ultimo nato. I giovani padri nei lunghi e freddi inverni andavano d'ingegno e costruivano culle ricamate o anche "sciesule" i vecchi saggi, invece, loro lavoravano di "scudiscio" per riparare gerla usate o costruirne delle nuove anche per dare in dote alle fanciulle in età da marito.
Era un bisbiglio generale gli uomini si raccontavano di avventure in Svizzera, le ragazze di punti di ricamo, le donne silenziose lavoravano di maglia, lana e filarello, noi bambini a bocca aperta s'ascoltava o si ammiravano quelle mani rugose ma veloci che sempre sapevano cosa fare. La regiura, letti i fatti del giorno di Famiglia cristiana, dove i fatti del giorno erano almeno vecchi di una settimana ,anche se venivano riletti tutti i giorni, la regiura, dicevo, presa la corona, con tono imperativo diceva "ades an dis al Santu Rusari" , nel primo mistero gaudioso ..... Pater Nuscter ... Ave.. Santa Maria ...  Requiem eterna ... Gloria patri  ... De profundis clamavi te … Salve regina ... Amen. Il tutto in rigoroso latino maccaronico ! Guai a te se osavi non rispondere o fare un sorriso alla bimba seduta al tuo fianco, diversi occhi ti fulminavano e ti invitavano a ricomporti. Si sentivano, però, frammisti alle sante litanie, bisbiglii diversi, sospiri e risatine trattenute, non appena qualche nonna socchiudeva le palpebre appesantite dalla stanchezza della quotidianità della vita o dall'età.
Terminato il rosario in alcune casi si leggeva il romanzo. L'anziano più acculturato, magari l'estimatore del paese, o quello che aveva frequentato fino alla quarta elementare, iniziava a leggere. Di solito era un romanzo d'amore o d'avventura, una raccolta  in fascicoli mensili, 50 e più fascicoli. Lui leggeva, gli altri ascoltavano in religioso silenzio, noi bambini stanchi ci si addormentava fra le braccia delle nonne.
E Vorrei tornar bambino!

quando a primavera la neve incominciava a sciogliersi ai raggi del sole e sotto la crosta dei ghiacci formatisi sui viottoli serviti come piste per i rudimentali slittini, fatti per lo più da panche e sgabelli capovolti,vedevi scorrere l’acqua e qua e là affioravano zolle fangose di viottoli sterrati noi, noi bambini sentivamo l’odore della primavera. La nostre voci garrule ravvivavano il paese quasi che il sole ci avesse rivitalizzati, cambiavano i giochi e coi giochi si allungavan le giornate. Si abbandonavano i rudimentali sci di frassino che il più delle volte avevano fatto il militare con i nostri padri, si abbandonavano panche e sgabelli e come d’incanto comparivano le biglie di terracotta, solo i più fortunati possedevano qualche biglia di vetro, e palline di gomma per rallegrare i giochi alle fanciulle. Qualche volta i più grandicelli giocavano con le monetine, normalmente si usavano le monete fuori corso del periodo prebellico ma i più audaci azzardavano il gioco con le cinque e le dieci lire del nuovo conio. Succedeva che i più piccoli come me venivano impudentemente “sbiottati”. Stanchi di aspettare che i raggi del sole facessero il loro dovere, noi ragazzi ci si dotava di vecchi badili o di qualche sgangherata pala, le stesse che venivano usate nel general inverno per spazzare le stalle dal letame, e sgomberavamo la piazza del paese, quella della Chiesa, dalla neve e nella fanghiglia che ne rimaneva si praticavano i giochi più disparati. I più gettonati erano: bandiera, Carabinier, libero tutti, sparviero, la zopa (a nascondino) e a bocc, dove le bocce erano costituite da lastre di beola grigia  appositamente modellate e lisciate, e giù a giocare a sctec e de bucin, spesso le mamme erano costrette a fasciare qualche testa che si frapponeva tra la bocia e il bucin. C’era anche chi con tre salti misurava il lato corto della piazza partendo dal muretto ad est verso la porta della Chiesa, l’inverso era pericoloso se sbagliavi le misure facevi il salto del muro e finivi nel campo sottostante, che si sarebbe poi dovuto coltivare a patate, dopo un salto nel vuoto di quattro o cinque metri e ciò non sarebbe stato indolore. Ricordo un reduce dalla Germania che stupiva noi ragazzi misurando la piazza camminando a testa in giù sulle mani, mi chiedo ora come allora chissà cosa avrà sopportato durante la prigionia per arrivare a tanto. Anche i giovanotti approfittavano della piazza libera dalla neve e in fila, in piedi sul muretto, si radunavano e raccontavano di avventure e di lavori, è dai loro discorsi che io ritengo di aver imparato la geografia e la storia della Svizzera senza averla mai visitata, raccontavano di come la passata stagione con pochi spiccioli in tasca l’avessero girata in lungo ed in largo alla ricerca di un lavoro qualsiasi che si traduceva poi nel lavoro dello scalpellino, del minatore o del muratore per i più esperti e in quello del bocia per i più giovani. Li si scambiavano le informazione e i veterani s’impegnavano a far avere ai bocia l’indispensabile nulla osta che permettesse loro di dotarsi dell’agognato passaporto, senza un contratto in tasca la Svizzera non ti era amica ed era troppo lontana anche se stava lì dietro la montagna ad un tiro di schioppo. E la sera, dopo la frugale cena a base di minestra e di magnochja, i giovanotti si ritrovavano in qualche stua a raccontare barzellette, a volte si esercitavano in giochi ginnici da far invidia ai moderni campioni olimpionici, sono certo che avendone le possibilità economiche e non solo avevano la stoffa dei vari Chechi e Cassina, ora famosi in tutto il mondo. Qualcuno andava all’osteria ed allora le serate erano ravvivate dai vari inviti alla morra, gioco proibito; ma da chi ? chi avrebbe mai osato arrivar fin lassù per proibire un gioco, anche se quasi sempre la posta, dopo qualche litro bevuto in terracotta, era uno scambio di manesche cortesie che il giorno dopo tutti avrebbero dimenticate, almeno fino alla partita successiva. Altri invece cercavano più piacevoli compagnie e anche li si scambiavano manesche e delicate cortesie, capitava a volte che mentre camminavi nei viottoli scuri ombre furtive si sottraevano agli sguardi vogliosi di noi ragazzi e sempre le ombre erano due e staccandosi andavano in diversa direzione, nascondevano amoreggiamenti non approvati dagli arcigni regiuu, a volte perché amori immaturi a volte perché clandestini, succedeva spesso di raccoglierne più in là i paffuti e rosei frutti.
E vorrei tornar bambino

la sera quando imbruniva e i più piccoli cercavano frettolosamente di raggiungere baita si sentiva per l’aria l’allegro cicaleccio degli uccelli ch’erano ritornati da chissàddove e si accingevano ad intrecciare ramoscelli e piume, chi negli antichi siti e chi fra i rami fitti degli abeti, tutti comunque a costruirsi un nido. I prati tutt’attorno mostravano a chiazze ciò che rimaneva dell’inverno ma al “suliv” la vita ricominciava i crochi facevano capolino e il radicchio era una primizia, noi ragazzi incuranti dei piedi bagnati s’andava alla ricerca dei nuovi nidi, il nostro scopo non era di cercar companatico per la polenta, questo mai, noi non s’usava, era per farsi vanto di poter raccontare agli amici di quanti nidi tu eri lo scopritore, e succedeva che lo stesso nido fosse scoperto e conosciuto da più d’un ragazzo e questo quasi sempre lo indicava ai suoi “soci” e così tutti sapevano dov’erano tutti i nidi e alla fine in molti nidi si faceva la frittata. Anche i nidi avevano una scala gerarchica: una “nièèda” di fagiano valeva sicuramente almeno dieci di “tescta piata” o quindici de “coa rossa”, ma una nièèda de “tuì” o de “reatt” valeva quanto una di pernice; il mio sogno era di trovare un nido d’aquila, miravo in alto. Una preziosità era il nido con l’uovo o il piccolo di “cucù” o i nidi con le uova verdi o azzurre o “turchiin e marunscell cume i sass dal tuff”, diceva un mio amico d’avventure. Capitava in primavera, verso il tramonto, di vedere fra le frasche di ontano di montagna rincorrersi delle lepri e non sapendo di stagioni amorose mi chiedevo cosa fosse a spingerle a giochi così tanto gioiosi, era il gioco della vita, lo stesso gioco che spingeva noi a carpire un sorriso o una carezza ad una tenera mano. Il papà di un mio amico era cacciatore una volta mi capitò di vederlo scuoiare una volpe, era la prima che vedevo, peccato che fosse morta, ma le volpi di giorno non si vedevano e la notte mi faceva paura. La notte era per me popolata di streghe e diavoli e di morti che chissà per quali ragioni non si davano pace e protagonisti di chissà quali fatti strani che ancor oggi non so in che misura la sfrenata fantasia di chi li raccontava prevaleva su quanto  veramente  fosse mai accaduto. La notte si riempiva di diavoli con i piedi di capra che circuivano nel ballo giovine fanciulle perdendole per sempre e di preti ipnotizzatori che con la “fisica” facevano vedere in anticipo ai giovani vogliosi d’amore le fiamme della geenna e di scrofe nere e grandi come cavalli che nella notte portavano in giro come impazzite nottambuli cavalieri, e di campane che suonando scongiuravano i demoni e di dannati che nelle notti d’estate facevano rotolare sassi giù dalla montagna. La notte mi faceva paura.
E vorrei tornar bambino

La vita in paese era meticolosamente regolata sui lavori della campagna, pochi possedevano un orologio, e quei pochi ne possedevano uno per lo più svizzero  a carica manuale, naturalmente, dal campanile a mezzogiorno rintoccavano le campane. Si sa che il suono delle campane a mezzogiorno serve a ricordare la vittoria in battaglia di non so quale parte su un’altra, per noi quel suono stava a dividere la giornata in “pruma de mesdì” e in “dopu mesdì” non serviva certamente per ricordarci che era ora di pranzo, a questo ci pensava il nostro appetito. Stavo quasi per dire la “nostra fame” ma poi mi sono ricordato di un racconto letto alcuni giorni fa in cui un bimbo rivolgendosi al nonno diceva: nonno dammi dei biscotti, ho fame, e il nonno rispondeva no piccino mio tu  hai solo molto appetito, noi, avevamo fame ! A proposito di fame: io durante la guerra non ero ancora nato, mio padre era al fronte e mia madre non sapeva di che sfamare i miei fratelli più grandi e come tutte le mamme che avevano il marito al fronte o addirittura vedove si imbarcava in lunghi e faticosi viaggi verso la Bassa, oggi si direbbe la Padania del Bossi, ad elemosinar qualcosa, non  che non avessero i soldi per pagare, ma era comunque un elemosinare pietà perché nessuno si voleva privare di quel poco che aveva e i “Padani” non sempre erano generosi. Una volta mio zio parti speranzoso verso la Bassa aveva l’onere di tornare con qualcosa, qualsiasi cosa, utile a sfamare la sua famiglia e quella di suo fratello, mio padre, tornò una settimana dopo con tre etti di farina bianca tutta appiccicaticcia chiusa in una tasca della giacca. Che fosse vera fame ?
Volevo raccontare dei lavori della campagna e gli orologi mi han distratto, mi han rubato il tempo. L’anno per noi non iniziava il primo di gennaio, il nostro anno non aveva ne un inizio ne una fine, a pensarci bene gli anni servivano solo per misurare il più o meno lungo cammino della vita o nei racconti delle mamme e delle nonne  per misurar le guerre. Come dicevo la vita di paese era regolata dai lavori a ciclo continuo e potrei partire da qualsiasi lavoro ma visto che sopra ho iniziato a raccontar la primavera parlerò dei lavori primaverili. Devo premettere però che durante il tardo inverno, febbraio/marzo per intenderci, i giovanotti in attesa del contratto per la Svizzera provvedevano a costruire piste nella neve necessarie per portare con le slitte il letame nei prati più lontani dal paese, li scavavano ampie buche nella neve e ve lo depositavano, sarebbe servito in un secondo tempo per concimare prati e campi. I lavori di campagna erano prerogativa di uomini anziani, delle donne di ogni età e dei fanciulli che portavano i pantaloni, si ! perche i più piccoli che portavano il gonnellino erano esentati, per loro il lavoro era solo un gioco di imitazione.
E vorrei tornar bambino

Allorché la neve si era completamente sciolta si dava inizio ai lavori, dapprima si andava a rastrellare i prati: occorreva pulirli della parte non sciolta del letame sparso l’autunno  precedente e dai sassi fatti affiorare dal gelo invernale e dai cumuli di terriccio dei “talpin” tane delle talpe., poi si faceva altrettanto con i campi.
Terminato di pulire i campi si provvedeva a portarvi il letame, due, tre o quattro gerli a seconda della loro dimensione. Il letame veniva sbattuto con le “trienze” fino a renderlo molto fine e poi con le stesse lo si spargeva ben distribuito sulla superficie del campo,Si procedeva quindi alla vangatura del campo, il badile spinto con le braccia e con un piede doveva sprofondare verticalmente nel terreno per 30/35 centimetri e la zolla con una leggera rotazione doveva essere buttata in avanti e capovolta, così facendo la terra veniva utilizzata al meglio ed il letame veniva opportunamente coperto e lo stesso andava a concimare il terreno in profondità.
Completata la vangatura si procedeva alla  semina , si utilizzavano patate opportunamente selezionate dalla precedente raccolta, dovevano essere sane e presentare almeno un germoglio, quelle che ne avevano di più venivano tagliate a spicchi, non più di due, così si risparmiava un po’. Con il “sciarscel” piccola zappa a doppio uso, con una mano si scavava una buca profonda una ventina di centimetri e con l’altra mano vi si gettava la semente, la buca, sempre con l’uso del sciarscel veniva poi coperta di terra, avendo cura di mantenere il letame in profondità.
Terminata l’operazione di semina con un rastrello si livellava accuratamente e delicatamente la superficie del campo. Avrò successivamente occasione di parlare dei lavori nei campi
Noi ragazzi si era impegnati a scuola per tutta la giornata ad eccezione della domenica e del giovedì, così era stabilito dai calendari ministeriali, ma le maestre, che cambiavano di anno in anno, quasi sempre riuscivano ad ottenere che il giorno di vacanza infrasettimanale venisse spostato al sabato o al lunedì, così potevano fare il ponte e recarsi con più facilità alle loro residenze. Forse non vi ho ancora detto che il paese non era raggiungibile con la carrozzabile e che per prendere la corriera bisognava scendere a valle lungo una mulattiera non proprio facile e questo non rendeva la nostra scuola appetibile alle insegnanti.
Dicevo quindi che noi ragazzi eravamo impegnati nelle attività scolastiche ma nelle ore libere e nei giorni di vacanza si accompagnavano mamme e sorelle in campagna o si portavano le mucche al pascolo, Portare le mucche al pascolo era il nostro compito principale, anch’io fra gli 8 e i 14 anni ho fatto il “pastorello”.
E vorrei tornar bambino !




Una torre nel cielo

Una torre nel cielo
Starlandia la terra fra le stelle